
di Roberto Carlo Deri (antropologo medico e scrittore)
La sofferenza umana, come emanazione della psiche oltre che del corpo, si pone in un interstizio esistenziale, in una frattura nascosta e liminale, ove le matrici si perdono e si confondono fra cause ed effetti in quel microcosmo di interazioni dell’individuo nella sua dimensione di sistema aperto complesso. Sofferenza, uno stato dell’esistere che può racchiudere l’essenza di un semplice fastidio o di un dolore profondo, spesso difficilmente diagnosticabile, annidato nelle spire di un essere multi-dimensionale che la bio-medicina contemporanea stenta ancora a comprendere, o forse si rifiuta di conoscere, delegando quasi sempre la sua relazione con il paziente-soggetto (per lei oggetto) a diagnostiche elettroniche o ad anamnesi.
Cos’è dunque questa sofferenza, quando non si estende a distretti corporei ed il male non è alterazione organica?
Cosa accade quando va oltre le fin troppo citate psicosomatizzazioni?
Come ci si raffronta se la bio-medicina non ravvisa realmente alcun disturbo o patologia biologica?
Come la si comprende quando anche la medicina psicosomatica non rivela “tracce” neppure nella correlazione psiche-soma, perché è proprio nel soma che nulla è presente?
Come la si interpreta quando i sintomi vengono assimilati ai segni e psichiatri e psicologi dichiarano la sanità mentale e psichica del soggetto?
Già, soggetto, perché nell’ambito dell’incontro-relazione terapeutico e colloquiale, sia il medico che il “paziente” sono entrambi soggetti agenti, seppure con ruoli che differiscono senza elementi di autorità o posizioni preminenti.
Questa sofferenza sottile, acuta, persistente, sovente sfuggente, talora assente ma pronta a tornare nella sua ambiguità , nella sua forma insidiosa, non definibile né tantomeno governabile e, proprio per questo, inesistente.
“Lei non ha proprio niente! E’ sano/a come un pesce!” Affermazione comune nell’incontro terapeutico e facilmente derivabile da analisi che non hanno la possibilità di consigliare, capire e far affiorare il senso di tale sofferenza: IL MAL DI VIVERE.
Quel senso di inadeguatezza che supera l’insoddisfazione e spesso non può essere solo ricondotto alla depressione (spesso non lo è) e si annida nei recessi più reconditi dell’essere, nelle pieghe interstiziali di un vissuto che non è riconosciuto dal bio-medico perché non lo consente e può essere portato alla luce attraverso un percorso al di là delle usuali forme psicoterapiche.
Questo mal di vivere deve essere snidato tramite un approccio terapeutico che comprenda maggiormente una forma verbo-centrica, teso a far fluire il decorso emozionale del soggetto in una apertura psichica ed emozionale totale.
L’intervento dell’operatore sia esso medico, psichiatra, psicologo, antropologo, deve favorire un’evoluzione biunivoca del rapporto medico-paziente e questo defluire dialogico libero potrà condurre alla costruzione di una biografia esistenziale, percorso contestuale comprensivo (e che comprende in sé) elementi, episodi significativi e comuni della vita quotidiana e profonda del paziente-soggetto immerso nel suo “mal di vivere”.
Biologico, psichico-emozionale-mentale e culturale, tripartizione delle tre dimensioni dell’essere umano, al quale va riconosciuto il ruolo di essere padrone ed elaboratore della propria malattia come della sua “sofferenza esistenziale”, che può essere anche solo culturale, come la malattia, ben espressa nelle tre definizioni della lingua inglese in disease, illness e sickness… ma questa è un’altra storia.
A volte difronte a certi malesseri interiori è difficile trovare la forza di riconoscere che c’è bisogno di un aiuto esterno… Eppure ci sono medici molto validi e, anche se il cammino che una persona con difficoltà tali deve percorrere spesso non è semplice né breve, anche io credo fermamente che in questi casi un aiuto esterno può essere veramente efficace.
Inoltre trovare la forza di riconoscere da soli che c’è bisogno di aiuto e innescare quella forza di volontà per ‘reagire’ – forza che, appunto, può avere effetto solo se parte dal diretto interessato (a nulla serve se te lo consigliano dall’esterno!)- è già il primo passo per dare una svolta alla situazione.
Chiedere aiuto poi,in generale, è un atto di umiltà grande che spesso sottovalutiamo per non apparire deboli e che in realtà può innescare una rete d’amore forte e ricca di risvolti.
Sacrosante parole!
E’ proprio vero quello che dice l’antropologo ed è splendido come le dice, quel suo linguaggio apparentemente difficile da comprendere è invece uno stimolo ad andare nella profondità delle parole.
A mio avviso il problema “gravissimo” di oggi è l’assoluta mancanza di relazione tra paziente e terapeuta; che noi siamo sani come un pesce oppure afflitti da grave malattia è sempre quella figura a decretare la nostra sorte senza un dialogo né un confronto.
Sono molto pochi i terapeuti attenti a chi si trovano di fronte, attenti cioè al fatto che dinanzi a loro c’è un essere sensibile con un corpo e un’anima(cosa quest’ultima troppo spesso dimenticata). Impariamo a relazionarci dentro di noi cioè ad ascoltarci e a guardare in faccia la malattia divenendo consapevoli di ciò che sta accadendo è secondo me un piccolo passo verso la guarigione.
E’ vero ci sono malattie terribili che è difficile accettare ma secondo me nutrire sempre la fede che forse potremmo guarire ci darà la forza per vivere e non vivacchiare come fanno tanti.
Cara Luisa sei un esempio di grande forza per tutti noi, non mollare mai!!!
Un grande abbraccio Anna Rita.
Spesso i medici, di qualsiasi ramo siano, mancano di sensibilità, valore importantissimo per una professione che è come una vocazione (insieme a sacerdoti e insegnanti, secondo me). Sensibilità verso il paziente e la loro famiglia che, troppo spesso, sono soltanto dei numeri inutili da fascicolare e archiviare, soprattutto nella struttura pubblica. Ma qui si entra in un terreno minato di cui si dovrebbe parlare per ore.
Voglio solo ri-sottolineare quanto espresso da Roberto nella parte finale del post:
“Biologico, psichico-emozionale-mentale e culturale, tripartizione delle tre dimensioni dell’essere umano, al quale va riconosciuto il ruolo di essere padrone ed elaboratore della propria malattia come della sua “sofferenza esistenziale”.
Padrone ed elaboratore della propria malattia: questa è la chiave di volta per poter andare avanti di fronte alla sofferenza.
Cara Anna Rita,
mi spiace il ritardo nella risposta, purtroppo una serie di docenze a contratto accumulatesi, e gli impegni di scrittura…
Hai perfettamente ragione! Purtroppo in Italia molti uniscono il triste binomio di ignoranza mista presunzione ed arroganza, sia nelle sfere di potere, politico e biomedico, che in quello alla base, nella gente comune.
Proprio pochi giorni addietro ad un importante incontro con un gruppo di pazienti, senza problematiche gravi, assieme ad un’amica psico-terapeuta, alcuni di loro con protervia hanno chiesto cosa centri l’antropologo nell’ambito della “medicina della mente”. E proprio venerdì in ambiente sportivo-Coni, ironizzavano con sorrisetti, alcuni diplomati “isef, scienze motorie e semplici istruttori di nuoto”, sul senso dell’educazione, soprattutto quando affermavo ( e prima di me persone ben più autorevoli lo hanno esposto) che l’agonismo, come la competitività aziendale siano sbagliati perché l’emergere e la vittoria di uno o di pochi, crea la frustrazione psichica e l’umiliazione di molti e bisogna quindi educare alla collaborazione.
E pensare che per anni nella più importante scuola medica del mondo: L’Harvard Medical School, il direttore è stato un antropologo: Byron Good.
Grazie ed un abbraccio.
R. C. Deri
Caro Roberto,
grazie di aver gradito la mia risposta, soprattutto il mio punto di vista.
Il problemi di molti terapeuti, di medici e altro è che non analizzano l’etimo della parola; infatto sai meglio di me che antropos è l’uomo inteso nella sua interezza.
Forse è per questo che amo la silosofia, anzi direi che vivere da filosofo è il mio stile di vita.
Mi piacerebbe leggere qualche tuo libro, se ne hai scritti.
Un caro saluto, Anna Rita
Cara Anna Rita,
mi spiace il ritardo con cui ti rispondo ma le mie, purtroppo più attività come docente a contratto e libero professionista, quest’anno in senso scolastico (dopo l’annullamento di ogni euro alle scienze umane e le 10.000 cattedre fatte saltare dalla riforma Gelmini nel 2010) mi hanno “sovra-sommerso”.
Libri miei usciti in ambito antropologico… (due saggi usciranno il prossimo anno) posso indicarti due pubblicazioni di edizioni universitarie: 1) “L’antropologia del mistero” e “Medicine Tradizionali ed alternative”, ma credo siano di difficissimo reperimento se non impossibili. Al momento, ma non so se ti interessi, ci sono alcune cose di narrativa e lunghi-articoli-mini-saggi di diverso argomento. A giorni esce un mio romanzo di fantascienza sociologica. Lo presento a Giugno a Latina e Roma e ad Agosto in Abruzzo. Tu dove abiti?
Se vuoi contattami pure su face book.
Un abbraccio e a presto.
Roberto
Potrei venire a Roma se le date coincidono con i miei impegni. Se mi farai sapere dove e quando mi organizzerò.
Ciao e grazie. Anna Rita
Cara Anna Rita, ovviamente senza alcun impegno poichè comprendo la distanza, abiti a Perugia vero? Mi sembra mi abbia detto Luisa.
Per la presentazione del mio romanzo ho una data a Latina il 3 Giugno nell’ambito di un festival di due giorni dedicato al fantastico. A Roma la presentazione personale, in un caffè letterario, sarà il 15 Giugno alle 20 e 30. Se mi dai amicizia su face book o la mail ti invio locandina ed invito, qui non sono capace.
Grazie ed un abbraccio
Ho letto qua e là, come una farfallina curiosa di fiore in fiore, articoli, poesie, commenti.
Parole, parole, parole.
Tutte che parlano del mal di vivere che, anche se non patologicamente e in varie forme e intensità, affligge tutti noi.
Di quel “posto buio” che tutti abbiamo da qualche parte dentro di noi e che vogliamo dimenticare, ignorare, imbrogliare.
E forse basterebbe un pò di luce…
Parole, parole, ancora parole.
Ma mi piace dei visi dietro, dei cuori, delle persone che si impegnano, lottano, sperano: per vivere meglio!
L’amore e la costanza di queste persone sarà la luce per illuminare il mio “posto buio”.
Pirandello sosteneva che il dramma dell’uomo risiede nella forma stabile che diamo alla nostra vita, quando invece la nostra anima è in continuo movimento, coerente e incoerente..
La forma ci serve per vivere nelle convenzioni che noi stessi ci imponiamo.. diventa un circolo vizioso e nel momento in cui decidiamo di reciderlo.. beh.. ci rendiamo conto che non riusciamno a toglierci la famosa maschera semplicemente perchè è ormai diventata inscindibile..
A volte, a mio avviso, basta mettere un pò da parte l’ipocrisia che ci circonda e imparare ad ascoltarci davvero.. la nostra anima ci parla.. ma noi non conosciamo più il silenzio..
No, non conosciamo più il silenzio…
Rumori continui (traffico, telefoni, televisione, chiacchiere inutili ad ogni livello, ecc…) ci impediscono di ascoltare ciò che veramente vale. Il famoso “castello interiore” è stato praticamente disintegrato e sulle sue crepe, più o meno evidenti, si annida comodamente il male di vivere.
Cosa proponete per una vera riscoperta del silenzio? Quali sono i modi con cui voi lo cercate?
Questa si che è una bella domanda.. 😉
E’ difficile ritagliarsi dei momenti per stare soli con se stessi tra le tante cose che si hanno da fare durante la giornata..
Generalmente non cerco il “silenzio”, ma è lui a cercare me, nel senso che a volte mi rendo conto che sto iniziando a fare le mie cose meccanicamente e mi sento stanca, demotivata..
Allora capisco che è arrivato il momento di prendere un attimo di respiro, mi guardo un film, mi ascolto un pò di musica, mi leggo un libro.. cerco di stare un pò sola, non tanto per fare riflessioni filosofiche, ma semplicemente per riassettare la mente, capire quanto sono parte delle cose che faccio e soprattutto perchè e chiedere un consiglio a Chi di dovere..
Logicamente sarei una persona super-equilibrata se ci riuscissi .. purtroppo ci riesco una volta su 5, ma si fa quel che si può.. 😉
Una volta su 5 è una buona media, cara willow.
Quindi, tu ci proponi per ritrovare il silenzio:
1) vedere un film, ma non sono suoni e parole?
2) ascoltare musica, ma non sono note e parole anch’esse?
3) leggere un libro, ma non sono parole anche quelle?
Non voglio essere polemica, anzi questi metodi che tu usi sono gli stessi che spesso uso anche io… Voglio solo stimolare una discussione sulla ricerca del silenzio, quello vero. Magari questo silenzio scaturisce proprio dalla riflessione interiore post film/musica/lettura che tu proponi, non è così? Altri metodi?
Io cammino veloce e molto, mi scarico e, con la speranza di non incontrare nessuno che conosco (non per cattiveria, ma per non riattivare i “blablabla”) ascolto la natura e, attraverso essa, cerco un innalzamento verso l’altissimo (vedi: ascensore inclinato), magari attraverso la preghiera. Ma alla fine anche queste sono parole… Difficile rispondere, quindi, alla domanda sulla ricerca del silenzio…
Charlie Chaplin ha detto:
A proposito di silenzio ti ripropongo quanto dice Romano Battaglia seguendo il consiglio di un vecchio tibetano: “Per trovare il silenzio cammina per tre giorni in un bosco” Più o meno è questo il concetto.
Per quanto mi riguarda il silenzio l’ho cominciato a conoscere facendo le meditazioni e lo yoga ma l’ho sperimentato veramente quando mi sento affranta per i vari problemi che la vita ti pone davanti;in questi momenti sento che l’unico modo è cercare di allontanare i pensieri.
Come lo faccio? Mi metto a restaurare qualche vecchio mobile o a lavorare a maglia o a fare quasiasi altra cosa che abbia a che fare con l’arte, soprattutto con la scrttura.
Certo scrivere è avere a che fare con la parola ma ti aiuta a far uscire il cumulo di pensieri negativi che si aggrovigliano dentro di te.
Il silenzio per me è uno stato dell’animo dove non esiste né il bello né il brutto, né il cattivo né il buono; è uno di quei rari momenti in cui ci sentiamo in uno stato di grazia. Purtroppo dura poco perchè i problemi del giorno ci assalgono.
Questo è quello che penso sul silenzio.
Dice un detto benedettino “Beata solitudo, sola beatitudo”
Ciao Anna Rita.
Bel detto, questo benedettino!
Io ho una cara amica che ha scritto un libro dal titolo: “Nel silenzio della notte ascoltai”. Chissà che lei, così dolce e affabile, non ci voglia raccontare qualcosa della sua scoperta del silenzio?
Silenzio per me non significa assenza di parole o suoni.. significa dare un senso alle parole e ai suoni che ti arrivano da ogni dove, dar loro un ordine e una direzione.. Personalmente per farlo ho spesso bisogno di una mano, di un input, che può venire da altre parole o dal sudore di una bella nuotata o dal calore del sole sulla pelle; e ancora più spesso da uno sguardo verso l’alto..
Il silenzio “vero”, secondo la mia opinione, non è quello che riusciamo a creare, ma quello che riusciamo ad ottenere..
Tu dici: “Il silenzio “vero”, secondo la mia opinione, non è quello che riusciamo a creare, ma quello che riusciamo ad ottenere..”
E’ giustissimo, il silenzio non si crea ma si ottiene… Ma se per ottenere silenzio dobbiamo, a volte, usare parole non è come un cane che si morde la coda?
è un cane che si morde la coda solo se non si riesce ad elaborare dentro di sè quello che ci è stato offerto, e quindi cercare di renderlo nostro per rinnovarci continuamente..
Io lo vedo più come un tuffo dalla rupe.. a volte riesci a saltare da solo, a volte sei bloccato e hai bisogno di una spinta.. Una volta che ti è stata data, puoi apprezzare il brivido di un salto dentro te stesso..
Sono l’esperta dei circoli viziosi di pensiero, io…
Ne creo dal nulla e mi ci adagio comodamente… E così ne creo di nuovi: circolo su circolo fino ad arrivare ad un vortice… Basterebbe bloccare l'”occhio del ciclone”, buttarsi a capofitto in esso e in te stesso, fare un tuffo dalla rupe come dici tu… Come ci riesci tu? Dove trovi la forza e il coraggio?
Anche a me piace fare discorsi teorici, come avrai notato, ma la carenza nella pratica è un problema diffuso.. 🙂
Come tutti ci provo.. godendo dei rari momenti di pace interiore che riesco, non tanto ad avere, ma a riconoscere..
Ottima mossa, willow! Godiamo dei rari momenti di pace interiore…
Vi sembrerò infantile nel proporvi questa canzone ma, vi assicuro, che guidare con due bambini a bordo non consente l’ascolto di altre tipologie di musica…
Pensando allo sviluppo dei commenti di oggi mi è venuta in mente questa canzone, sarà perché il cd l’ho ascoltato tante volte…
Mi commuovo, sì, anche ascoltando lo Zecchino d’oro, non solo per la profondità delle parole, la bellezza delle note e gli splendidi incroci di voci che propongono ma anche e soprattutto perché intonare canti in macchina coi propri figli non ha eguali, specialmente se il più piccolo ha solo due anni e mezzo e, a modo suo, esprime la gioia del cantare (come sale in macchina mi dice: “Musica!”).
Questa canzone, nella sua semplicità ripropone il gioco del silenzio invitandoci ad uno “Stt!” per ascoltare la voce di un mondo profondo e per veder accendere una stella… Buon ascolto!
http://www.youtube.com/watch?v=OK52818bT6Q
tuo figlio ha già capito tutto dalla vita.. cantare in macchina è la cosa più liberatoria del mondo.. 😉
comunque questa canzone non la conoscevo.. ma è davvero bellissima!!!!! 🙂
Sì, i miei figli hanno capito tutto della vita: cantare in macchina ha davvero del liberatorio!
E tu non puoi conoscere questa canzone, a meno che non vedi e/o ascolti lo Zecchino d’oro!
Ma i bambini e il loro mondo hanno sempre qualcosa da insegnarci…
Che dolcezza! Anch’io con le mie sorelle quando eravamo giovani cantavamo in macchina mentre tornavamo da una gita con i nostri genitori.
Tanto per finire il discorso sul silenzio aggiungo che per me saper ascoltare è il raggiungimento ultimo di entrare in contatto con il silenzio con la S maiuscola.
Nel libro che hai citato Cécile è proprio nel silenzio della sua notte che ascolta e da quel silenzio raggiunto ciò che ascolta rimarrà impresso nella sua anima per tutta la vita.(e anche oltre per chi crede nell’eternità dell’anima)
In fondo, se ci pensi bene tutta la nostra esistenza(consapevole) la passiamo cercando il silenzio poichè quando arriverà “La Signora” è nel silenzio che l’accoglieremo.
Intanto che essa arriva, viviamo questa nostra esistenza nel migliore dei modi, onorando ogni momento.
Anche nel mio libro Viviana si attacca alla vita dopo aver sperimentato il silenzio impostogli dall’aver visto in faccia “la Signora” e da lì sperimenta la bellezza di vivere ogni attimo nel presente, come se fosse l’ultimo. Per dare un senso, per onorare ogni momento, come dici tu. Questa è la chiave per la serenità, difficile da intraprendere viste le insidie di ogni giorno, ma percorribile con gli strumenti giusti: la fede, la grinta, la forza interiore, l’amicizia di persone valide. Una farfalla che squarcia la sua ragnatela e vola verso l’infinito…
….e verso la vita.
Bellina questa canzone…
Vorrei dirvi un pensiero che mi è venuto fuori leggendo questi commenti sul silenzio e che riguarda il silenzio non “solitario” ma anche con altre persone. Io sono una che fa fatica quando c’è silenzio tra 2 e più persone perchè mi imbarazza… per cui cerco continuamente di tirare fuori argomenti (e mi riesce bene perchè chiacchiero volentieri, eh,eh).
Bè ho provato a fare un “esperimento” con le persone più vicine e care con cui il silenzio se viene a crearsi è meno imbarazzante: ho scoperto due cose molto interessanti e indicative: 1)Se io sto più zitta…parla più l’altro (perchè è più libero di farlo!) e questo fa si che mi metto inevitabilmente in un atteggiamento di ascolto che l’altro apprezza perchè si sente voluto bene e si crea una bella sintonia. 2)Se non si parla non è detto che comunque non si comunichi: a volte nel mio “forzato” silenzio sono avvenuti gesti spontanei che hanno “parlato” molto più di tante parole…
Questo solo per dire che il silenzio in fondo è sempre positivo. 🙂
Davvero belle le tue scoperte, grazie di averle condivise.
Aggiungo che spesso davanti a cose incredibilmente belle (o anche incredibilmente dolorose) è difficilissimo se non impossibile trovare le parole giuste, e a volerle usare per forza c’è rischio che sfugga o si sciupi la portata del fatto. Meglio, come dici tu, lasciar parlare i gesti spontanei o il “silenzio più eloquente di quanto qualsiasi parola potrebbe mai essere” (S. Vega)
In certi frangenti poi, invece di riempire di parole, c’è solo da fare quel silenzio che è l’anticamera della contemplazione.
Questo brano (tratto, guarda un po’, dall’album “Solitude Standing”) m’ha accompagnato per diverso tempo.
Testo e traduzione: http://blog.libero.it/ushuaia/4566687.html